Sono arrivato a Danzica casualmente l’ultimo giorno di agosto del 2019, in vacanza con la mia compagna. La città, che lei aveva suggerito visitassimo, mi ha subito rapito per la sua bellezza e inusuale architettura. I palazzi nordici che la incorniciano le donano un’atmosfera scandinava, mentre i brulicanti bar e ristoranti del centro rigurgitano di vita e persone. Perso tra le sue strade, ero completamento assorbito dai colori e dai profumi dell’estate, la mia mente ancorata al presente giocoso che si srotolava di fronte a me.
Tutto questo è durato fino a che l’esplorazione della città mi ha condotto alla penisola di Westerplatte, che si allunga sottile nel mare a protezione del porto cittadino. Con la sua forma a gomito, costringe uno degli estuari della Vistola, la Vistola morta, a due strette virate prima gettarsi nel mar baltico.
Raggiunta Westerplatte al tramonto, il sentiero che la abbraccia mi ha condotto fino al mare, dove il sole basso stava incendiando acqua e cielo. Dietro di me invece, si scorgevano rovine di postazioni militari. Poco oltre, gruppi di soldati e volontari intenti a organizzare una parata, tra lo sventolio di bandiere e il rombo di automezzi risalenti all’ultimo conflitto mondiale.
È stato in quel frangente che ho scoperto il ruolo di Westerplatte come teatro del primo scontro della seconda guerra mondiale, accaduto esattamente ottanta anni prima della mia visita.
Girovagando per il complesso di vecchi bunker semidistrutti della penisola, ho capito che l’indomani si sarebbero celebrate importanti manifestazioni a ricordo dell’avvenimento. Diversi politici sarebbero intervenuti, incluso il sindaco di Cassino, luogo della più furibonda battaglia italiana della seconda guerra.
Sentendo quel nome, mi è apparsa davanti agli occhi la figura di mio nonno, cui non pensavo da tempo, ma che da bersagliere aveva combattuto a fianco degli Alleati durante la guerra di liberazione. Nei dintorni di Cassino aveva passato settimane di freddo e di angoscia, inchiodato in un paesaggio sconvolto dalla morte e dai bombardamenti.
Ricordo mio nonno come un uomo forte, riservato e dagli occhi accesi. Il suo corpo solido era una silenziosa e rassicurante presenza nella mia infanzia. E da piccolo ne ero affascinato: aveva quel coraggio fisico che appartiene solo a chi ha convissuto a lungo con la paura. Passavamo lunghe giornate estive insieme ed i suoi lontani ricordi di guerra facevano apparire la sua vita come un’avventura romantica. Talvolta la sua calma generosità veniva intaccata da uno scatto d’ira, che dimenticavo facilmente perché vi leggevo una fragilità nascosta, piuttosto che un segno di cattiveria.
Mentre passeggiavo per Westerplatte, la sua immagine e quella dei primi scontri del secondo conflitto mondiale si sovrapponevano. In quel piccolo bosco allungato tra la Vistola e il mare erano stati sparati i primi colpi della guerra. La locale guarnigione polacca di circa 200 uomini era stata istruita, in caso di attacco, di resistere per 12 ore, utilizzando tre linee di difesa concentriche: trincee, centri fortificati e infine il quartier generale con la sua caserma. Dopo questo lasso di tempo, dalla città di Danzica sarebbero dovuti arrivare dei rinforzi.
Niente sarebbe andato secondo questi piani.
L’offensiva nazista venne scatenata alle 4.48 del mattino del primo settembre 1939, con un breve bombardamento navale operato dalla corazzata Schleswig-Holstein. I tedeschi si aspettavano una vittoria rapida e infatti il primo attacco via terra venne lanciato solo 8 minuti dopo. Il sergente polacco Wojciech Najsarek venne falciato dal fuoco delle mitragliatrici e divenne, con ogni probabilità, la prima vittima della seconda guerra mondiale.
Subito dopo però i tedeschi caddero in un’imboscata meticolosamente preparata dai polacchi. Furono inchiodati a terra da un rabbioso fuoco incrociato e dovettero ritirarsi. Un successivo bombardamento navale ed un secondo attacco terrestre non sortirono effetti migliori. Resisi conto della difficoltà dell’impresa, i tedeschi bombardarono quindi le posizioni polacche ripetutamente nei giorni successivi, dal mare e dal cielo. Il bosco della penisola venne spazzato via e cedette il posto ad un allucinato paesaggio lunare di crateri e alberi spezzati. Ma tanta distruzione fu inutile: ulteriori attacchi terrestri vennero respinti e gli ufficiali polacchi, riunitisi in consiglio, decisero di continuare a combattere nonostante il crescente isolamento della loro posizione.
Le 12 ore di resistenza inizialmente pianificate divennero intere giornate, mentre nessuno dei rinforzi previsti riuscì mai a materializzarsi.
Il 6 settembre la situazione iniziò a precipitare. La Wehrmacht aveva ormai raggiunto Varsavia, i rifornimenti della guarnigione polacca andavano esaurendosi, gli uomini erano esausti ed i feriti, stipati nei bunkers senza adeguate cure mediche, iniziavano a soffrire di gangrena.
La mattina del 7 settembre, i tedeschi attaccarono nuovamente con rinnovata violenza. Dopo bombardamenti durati diverse ore alle prime luci del mattino, si avvicinarono facendo uso anche di lanciafiamme, per snidare i sopravvissuti dalle loro posizioni scavate nella terra sconvolta o protette dal cemento scarnificato dalle esplosioni. Fu più di quanto la guarnigione potesse sopportare. Alle 9.45 del mattino una timida bandiera bianca venne esposta ai tedeschi.
I sopravvissuti vennero presi prigionieri, ma non prima di aver ricevuto l’ammirato saluto militare da parte dei tedeschi che li avevano combattuti per una lunga settimana. Inutile dire che in guerra non c’è posto per comportamenti cavallereschi che vadano oltre le apparenze: pochi giorni dopo, il 12 settembre, il sergente Kazimierz Rasiński venne assassinato dopo un brutale interrogatorio per essersi rifiutato di consegnare ai nazisti i codici radio.
Il coraggio delle unità polacche, che ne condivisero le difficoltà sui campi di battaglia italiani, aveva colpito anche mio nonno. Il pericoloso assalto finale all’abbazia di Montecassino, che concluse una battaglia lunga quattro mesi, fu completato dai polacchi, mi aveva ricordato più volte. Uomini dall’esistenza marchiata dalla violenza e tuttavia persa nel tempo, come quella dei molti soldati italiani che dopo l’8 settembre 1943 si unirono agli Alleati per combattere i nazifascisti.
Il tramonto si stava ormai esaurendo su Westerplatte e sull’inattesa intersezione tra la storia di quella penisola e della mia famiglia. La luce rossa del sole aveva lasciato il posto a un sottile filo viola all’orizzonte, sovrastato dai lampi bianchi delle prime stelle incastonate nella notte. Mentre l’oscurità ricopriva di pace i bunkers sconquassati della penisola, ed io mi apprestavo ad abbandonarla, ho fatto una promessa a me stesso e a mio nonno. Quella di ricostruire e raccontare la sua storia. Per evitare che venga interamente inghiottita dal passato. Per sfidare l’oblio della morte. E per ritrovare, nella memoria della mia giovinezza, la sua voce e la sua presenza.
Ottimo post! Bravo e in bocca al lupo con questo progetto. Leggerò con piacere i racconti che seguiranno!
Grazie! 🙂