La vita, presto o tardi, ci strappa di dosso la giovinezza come una coperta trattenuta troppo a lungo in una mattina d’autunno. Mio nonno dovette vivere da solo quest’istante, schiacciato dall’inevitabilità della guerra. Io, fortunatamente, lo ebbi sempre al mio fianco. Ed in circostanze meno drammatiche.
Era un freddo pomeriggio di marzo, il cielo plumbeo tagliato da un’aria che odorava ancora d’inverno. Dopo la scuola io e i miei compagni di classe eravamo andati alla fiera, che in quei giorni si era fermata nella nostra città. La scuola ci aveva dato alcuni biglietti gratis per le giostre e noi ci eravamo precipitati ad usarli, le risate che sovrastavano il rumore metallico delle nostre biciclette.
Mi stavo spostando verso una nuova attrazione quando, senza alcun preavviso, un pensiero mi aveva invaso la mente, conficcandovisi con la forza e la velocità di una freccia. Hanno preso papà.
Ricordo di essermi fermato sui miei passi, di aver guardato sorpreso i miei amici e di averli salutati in fretta, andandomene senza fornire spiegazioni. Avevo raggiunto la mia bicicletta di corsa ed ero giunto a casa col fiato grosso e gli occhi spalancati. Nel giardino avevo trovato la macchina di mio padre abbandonata dopo la porta del garage, le chiavi ancora inserite nel cruscotto. È successo in fretta, ho pensato.
Alzando gli occhi avevo visto, attraverso le finestre di casa, un gruppo di parenti che si spostavano da un punto all’altro del soggiorno. Qualcuno piangeva.
Sapevo già cos’era successo. Ma sapevo anche che non mi sarei potuto sottrarre alle parole ed al loro sapore freddo e metallico, che sarei stato costretto a verbalizzare ciò che vedevo. Entrando in casa mi aveva quindi accolto un resoconto singhiozzante del pomeriggio. Papà era stato arrestato e non si sapeva quando l’avremmo rivisto. La televisione era accesa su un telegiornale regionale e con la coda dell’occhio avevo visto il profilo di mio padre appoggiato al sedile posteriore di un’auto di polizia, che attraversava lo schermo mentre veniva portato via.
Mia madre era seduta su un divano e tutti parevano affondati nel loro dolore. Attraversando una sala di occhi spenti, scrutavo quei visi nascosti tra le mani e già pensavo a cosa avrei potuto fare. Non ne avrei parlato con nessuno. Mi sarei occupato solo della scuola e di mia sorella, lasciando a mia madre tutto il resto. Avrei avuto fiducia in lei, in mio padre e negli adulti. E avrei pregato la notte.
L’unico che aveva ancora uno sguardo vigile capace di tagliare la confusione era mio nonno. Ad un certo punto mi aveva visto, si era avvicinato e mi aveva tirato in un angolo inginocchiandosi di fronte a me. La sua mano era forte sulla mia spalla ed i suoi occhi ancorati ai miei. “Ora devi diventare un uomo, Filippo. È il momento”, mi aveva detto. Avevo dodici anni, e le sue parole mi avevano colpito come una frusta, attraversandomi la schiena con un brivido d’orgoglio e di paura. L’avevo guardato annuendo ed il suo sguardo fermo aveva cacciato le sue parole dentro il mio stomaco, con l’inevitabilità di un ordine dato ad un soldato.
Circa un mese e mezzo dopo mio padre sarebbe stato scarcerato e diversi anni dopo assolto da ogni accusa. Era rimasto incastrato negli ingranaggi e nelle lotte di tangentopoli, senza aver commesso alcun reato. L’evento non sarebbe però stato privo di conseguenze: la sua carriera presso il genio civile sarebbe finita, avrebbe dovuto inventarsi un nuovo lavoro, i risparmi di anni sarebbero stati spesi in avvocati e vari conoscenti avrebbero deciso di non avere più nulla a che fare con noi. Fortunatamente i miei amici non fecero mai domande e non mi negarono la loro presenza. Dimostrarono più cuore della loro età e da me ebbero un’eterna e silenziosa riconoscenza.
Anni dopo, avrei cominciato a guardare a mio padre con ammirazione, affascinato dalla sua capacità di reagire alle difficoltà senza lasciarsi andare all’autocommiserazione. Ma in quel momento la mia principale preoccupazione era di mettere un giorno in fila all’altro.
I mesi successivi alla sua scarcerazione sarebbero stati i più lunghi. Mio padre era preoccupato, il processo difficile e la notte lo sentivo spesso aggirarsi nervoso per casa. All’epoca i suicidi delle persone coinvolte nelle inchieste non si contavano ed i giornali non lesinavano dettagli morbosi. La possibilità che, in un momento di debolezza, potesse considerare una soluzione del genere era una mano fredda che mi stringeva le viscere ed uno scenario che non ero pronto ad accettare.
La soluzione quindi era la veglia e la notte divenne un momento di attesa. Nel dormiveglia percepivo lo scricchiolio del pavimento e restavo immobile sotto le coperte, per sentire se la porta d’ingresso si sarebbe aperta. Al primo giro di chiave ero pronto a saltare fuori dal letto, per fermare mio padre con una scusa. Più di qualche volta ci eravamo quindi addormentati sul divano, di fronte a vecchi film polizieschi, il volume basso per non svegliare mia madre e mia sorella ed i nostri sguardi che si incrociavano senza parole. La sua mano sui miei capelli era il rifugio più sicuro che conoscessi.
Mio nonno non cercò mai di rincuorarmi in quei giorni. Tra uomini le parole hanno la consistenza di carta velina. Ma trovò comunque il modo di farmi sentire forte e grande. Un pomeriggio mi mise davanti ad uno specchio, afferrò due cravatte ed iniziò a disegnare nell’aria i movimenti necessari per annodarla. Lo guardavo ammirato mentre stringevo l’altra cravatta tra le mani, indeciso sul da farsi. Lentamente avevo cominciato a copiarlo, fino a che non ero stato in grado di farlo da solo. “È perfetto, sei pronto”, mi aveva detto alla fine con un sorriso complice. Un sorriso nuovo, il cui taglio era riservato agli adulti, anziché ai bambini. Mio nonno, col suo portamento rigido da vecchio ufficiale, mi aveva appena concesso una promozione sul campo.
Un paio d’anni dopo mio padre mi avrebbe insegnato a rasarmi, con mia grande emozione ed orgoglio. Un altro passo verso la maturità, che avevo vissuto con tutta l’esagerata solennità dei miei quattordici anni. Ma ancora oggi, quando mi vesto prima di una riunione, ripercorro con la cravatta i gesti di mio nonno, semplici movimenti che erano stati per me fonte di una nuova fiducia.
Il momento in cui mio nonno dovette lasciarsi definitivamente alle spalle la giovinezza, ed affrontare una prova infinitamente più grande della mia, arrivò il 27 agosto 1942, giorno in cui un bollettino ufficiale del Ministero della Guerra lo nominò sottotenente di complemento dei bersaglieri.
Il suo percorso nell’esercito era iniziato nel 1941 a vent’anni, col suo arruolamento nel corpo dei bersaglieri presso la Scuola Allievi Ufficiali di Complemento di Pola, una città di mare croata all’epoca in territorio italiano. Nove mesi di addestramento pratico e teorico terminati il 15 febbraio 1942, alla fine dei quali gli venne concessa una licenza straordinaria in vista della sua partenza in guerra.
Durante quel periodo, trascorso nello spazio claustrofobico ed affollato della caserma, condivise una grande camerata con altri allievi ufficiali provenienti da ogni parte d’Italia. Lasciare un letto perfettamente ordinato la mattina ed indossare un’uniforme immacolata la sera erano preoccupazioni quotidiane, nonché la chiave per poter godere di qualche momento di svago serale per le strade di Pola. Svago che sarebbe comunque stato il più frugale possibile: il coprifuoco era infatti fissato per le 8 di sera e familiarizzare con le ragazze locali era tassativamente vietato. I mesi di caserma trascorsero quindi in un limbo monacale d’isolamento, ove il lento trascorrere del tempo era interamente dedicato all’assimilazione ed alla pratica della violenza.
In quello spazio alieno, gli venne insegnato a marciare e a sparare, a guidare uomini in battaglia e ad operare diversi mezzi militari, tra cui motociclette ed autoblindo. Fu proprio questo specifico addestramento riservato alla fanteria meccanizzata che gli valse l’autorizzazione a non partire con l’ARMIR, l’Armata Italiana in Russia. Il primo di una lunga serie di miracoli che lo avrebbero riportato a casa sano e salvo si consumò quindi prima ancora del suo arrivo al fronte. Per molti soldati italiani, l’invio in Russia fu infatti l’equivalente di una condanna a morte.
Con ogni probabilità, il reclutamento di mio nonno avvenne attraverso i gruppi universitari fascisti (GUF), in cui si era imbattuto dopo essersi iscritto alla facoltà di ingegneria dell’università di Bologna. I GUF erano nati già nel 1920 ed il Partito Nazionale Fascista, su incoraggiamento di Mussolini, li aveva organizzati nel tentativo di farli diventare una fucina della “futura classe dirigente” d’Italia.
La partecipazione nei GUF era interamente volontaria. Per divenirne membri era necessario avere tra i 18 e i 21 anni, provenire dalla Gioventù Italiana del Littorio (GIL) ed essere iscritti ad una Università o ad un Istituto Superiore, incluse le Accademie Militari.
Mio nonno, cresciuto in un’Italia ormai interamente imbevuta della retorica fascista, aveva effettivamente partecipato alle attività della GIL. L’organizzazione, creata nel 1937, aveva come scopo lo sviluppo sportivo, intellettuale e militare dei giovani sulla base dei principi del regime fascista. Nella GIL era confluita anche l’Opera Nazionale Balilla, incaricata di organizzare i cosiddetti campi dux, manifestazioni ginnico-militari per ragazzi cui mio nonno partecipò diverse volte. Del resto, l’ammissione nei bersaglieri richiedeva una preparazione atletica superiore alla media, che mio nonno aveva affinato negli anni precedenti il suo arruolamento anche attraverso questi eventi.
Il suo desiderio di arruolarsi come volontario, la sua adesione ai GUF, la sua insistenza a voler servire un’Italia fascista anche attraverso il sacrificio più grande gettano un’ombra sul modo in cui visse quei giorni. A distanza di tanti anni, è impossibile sapere se a motivarlo fu soprattutto un ingenuo desiderio di avventura o piuttosto una radicata convinzione politica. Le sue ragioni sono ormai perdute nel tempo e probabilmente sarebbero state difficili da districare anche in quel particolare momento storico. L’animo umano è spesso teatro di scontro tra motivazioni contrastanti, consce ed inconsce, la cui comprensione è inevitabilmente un esercizio di approssimazione.
Del resto, molti di coloro che sarebbero poi divenuti esponenti chiave dell’antifascismo attraversavano in quei giorni gli stessi dilemmi morali e la stessa zona grigia di dubbio e compromesso. In un un’epoca tra l’altro in cui non v’era ancora esperienza storica del fascismo, né libri in grado di spiegarne limiti ed azzardi, contrariamente ad oggi. A differenza di chi supporta rigurgiti fascisti contemporanei, i giovani di allora non potevano essere accusati di ignorare volutamente e ciecamente un pericolo già conosciuto. Furono infatti membri dei GUF, tra gli altri, il regista Michelangelo Antonioni, Italo Calvino, Carlo Azeglio Ciampi, il pittore Renato Guttuso, il deputato comunista Pietro Ingrao, Aldo Moro, Giorgio Napolitano, Pier Paolo Pasolini ed Eugenio Scalfari. Mio nonno, di certo, non era in cattiva compagnia.
La storia, in ogni caso, fu con lui clemente e gli concesse, attraverso un secondo miracolo, la possibilità di riscattarsi. Quando dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 iniziò a combattere con gli Alleati, rischiò per lunghi mesi la propria vita per sconfiggere il nazifascismo. E non esitò a mettere alla prova la propria scelta nel ferro e nel fuoco della guerra di liberazione.
Quando l’addestramento di mio nonno finì, l’Italia si stava già avviando verso la disfatta finale. A soli pochi mesi dall’ingresso in guerra, era totalmente dipendente dalle decisioni della Germania nazista e non v’era più scacchiere in cui le unità italiane fossero autonome ed in grado di prendere l’iniziativa con successo.
L’ingresso italiano in guerra avvenne il 10 giugno 1940, poco più di un anno dopo la firma del Patto d’Acciaio con la Germania, quando Mussolini si convinse che il conflitto fosse già vinto. La Polonia era infatti stata conquistata da Germania e Unione Sovietica in meno di un mese, nel settembre 1939. La Danimarca fu travolta dai nazisti nell’Aprile 1940, mentre già nel giugno dello stesso anno i soldati di Hitler avevano occupato Norvegia, Olanda, Belgio, Lussemburgo e Francia. La Werhmacht pareva inarrestabile.
La rapida sconfitta della Francia era stata particolarmente traumatica. Sulla carta, l’esercito francese era meglio equipaggiato ed addestrato di quello tedesco. I generali tedeschi erano infatti contrari ad uno scontro diretto con la Francia, che ritenevano impossibile da vincere, ed avevano ripetutamente cercato di dissuadere Hitler dal progetto. Solo il generale von Manstein si era dimostrato più ottimista ed aveva quindi sottoposto al Fuhrer un piano più audace, diverso rispetto a quello della prima guerra mondiale: l’attraversamento delle Ardenne per accerchiare le forze anglo-francesi che sarebbero avanzate in Belgio per intercettare l’invasione nazista.
Hitler decise di approvare il piano e gli Alleati caddero nella trappola. Le Ardenne erano considerate non transitabili da moderne formazioni corazzate e vennero quindi trattate alla stregua di un muro impenetrabile. Anche quando piloti francesi, durante missioni di ricognizione, si accorsero dell’immenso ingorgo stradale creato dai tedeschi nella zona delle Ardenne, in cui si erano accavallati carri armati, cannoni ed autocarri, nessuno volle prestare attenzione ai loro rapporti. In quel momento, l’aviazione francese ed inglese avrebbe probabilmente potuto annientare facilmente le colonne tedesche ammassate sulle poche strade della regione. Ma la miopia dei generali rese tutto inutile. Una guerra che sarebbe potuta durare qualche giorno si sarebbe protratta per cinque anni.
Quando l’Italia si unì alle ostilità, la Francia, dopo l’accerchiamento e la fuga degli inglesi verso Dunkerque, stava capitolando. Proprio nel giorno in cui venne consegnata la dichiarazione di guerra, il governo francese si era trasferito da Parigi a Tours, dopo che i tedeschi avevano attraversato la Senna. Pochi giorni dopo, il 22 giugno, Germania e Francia avrebbero firmato un armistizio.
L’ingresso in guerra dell’Italia fu però non solo tardivo, ma anche incerto. Un ingresso a metà. Nonostante le parole minacciose, Mussolini era infatti conscio dei limitati mezzi italiani ed il capo di stato maggiore, generale Badoglio, aveva quindi dato istruzioni di non combattere: “Il Duce ha detto che è sua intenzione, con la dichiarazione di guerra, di cambiare lo stato di fatto in stato di diritto, ma che intende riservare le forze armate, e specialmente l’esercito e l’aeronautica, per avvenimenti futuri”. Insomma, quella di Mussolini era una mossa simbolica, compiuta solamente per non essere tagliato fuori dai colloqui di pace con la Francia.
Colloqui però nei quali Hitler non aveva nessuna intenzione di coinvolgere l’Italia. La Germania, di fatto, aveva già vinto da sola e non v’era necessità di dividere il bottino con Mussolini. Il Duce, vedendosi quindi sfuggire tra le dita un’occasione irripetibile, ordinò un improvvisato attacco sulle Alpi, anche se lo schieramento italiano in quell’area era prettamente difensivo.
Il 22 giugno quindi, i soldati italiani, impreparati e mal equipaggiati, si lanciarono all’assalto. Il conflitto con la Francia durò solo 100 ore: venne conquistata Mentone, ma Nizza rimase irraggiungibile. Il 24 giugno venne firmato un armistizio. Gli italiani avevano attaccato come se stessero ancora combattendo la prima guerra mondiale e in poche ore, inutilmente, avevano lasciato sul terreno 631 morti, a fronte dei 37 francesi.
Per rincorrere quindi qualche altro successo militare che lo legittimasse come alleato della Germania nazista, Mussolini si avventurò in quella che sarebbe stata la disastrosa avventura greca, dopo aver considerato azioni in più teatri, dalla Francia, alla Jugoslavia, alla Tunisia.
Ancora una volta, come in Francia, l’offensiva italiana fu raffazzonata. Iniziata nell’ottobre 1940, si impantanò subito e venne bloccata. Già il mese successivo, il contrattacco greco respinse gli italiani all’interno del territorio albanese da cui erano partiti. Una nuova offensiva italiana approntata nel marzo 1941 ottenne soltanto risultati marginali e lasciò sul campo 12.000 uomini tra morti e feriti. Un disastro. Mussolini stesso dovette rendersene conto e ordinò all’esercito di assumere, da quel momento in poi, un atteggiamento puramente difensivo.
Hitler era furioso. I tedeschi si stavano preparando all’invasione della Russia, ma vedendo il loro fianco meridionale traballare furono costretti a rinviarla e ad intervenire. Nell’aprile 1941 i nazisti penetrarono quindi in Grecia e Jugoslavia, che furono sbaragliate in meno di un mese.
Il 10 giugno 1941, ad un anno esatto dall’ingresso dell’Italia in guerra e ad ostilità ultimate sul fronte balcanico, Mussolini dichiarò: “È assolutamente matematico che in aprile, anche se nulla fosse accaduto per variare la situazione balcanica, l’esercito italiano avrebbe travolto e annientato l’esercito greco”. Ormai non gli restava che reinventare la realtà.
Anche perché, nel frattempo, la posizione dell’esercito italiano era precipitata anche in nord Africa. Le ostilità con gli inglesi, iniziate nel giugno 1940, erano state così disastrose che già nel febbraio 1941 Hitler era stato costretto ad inviare il generale Rommel col suo Afrika Korps a dar man forte agli italiani, che rischiavano la disfatta. L’intera 10ª Armata italiana era infatti andata distrutta ed i britannici erano giunti fino a El Agheila, in Libia, nel punto più meridionale del golfo della Sirte. Dal dicembre 1940 al febbraio 1941, al prezzo di 500 morti, i britannici avevano catturato ben 130.000 soldati italiani. Uno di questi era Enzo, il fratello di mio nonno, che avrebbe trascorso i successivi anni di guerra in India, in un campo di prigionia britannico.
“Un popolo che è stato per sedici secoli incudine non può, in pochi anni, diventare martello” fu lo sprezzante commento di Mussolini a proposito della disastrosa prestazione dell’esercito italiano. La colpa ovviamente non era sua. Era di tutti gli italiani.
Fu questo susseguirsi di imbarazzanti sconfitte che spinse il Duce ad implorare Hitler, che ormai lo considerava più come un impaccio che come un alleato, di appoggiarlo nell’invasione della Russia. Mussolini non sapeva infatti più dove guardare per cercare di riguadagnare prestigio con la Germania nazista. E lo fece quindi, ancora una volta, speculando sulla pelle degli italiani. Ufficialmente, dei 235.000 soldati inviati in Russia a partire dal luglio 1941, 114.520 divennero perdite. Quasi la metà.
Finalmente, nel novembre 1942, il Duce credette di poter cambiare le proprie sorti. Hitler aveva infatti deciso di invadere interamente la Francia, incluso il regime di Vichy. Ed i suoi piani prevedevano che la Corsica fosse interamente occupata dall’Italia, anche per via della presenza in quella regione di un movimento irredentista capace di assicurare, almeno inizialmente, un certo sostegno al contingente italiano. Mussolini poteva finalmente sentirsi utile.
Volle quindi fare le cose in grande. A fronte di una popolazione di 220.000 persone, furono inviati in Corsica quasi 69.000 soldati. Un’esagerazione. Ma come al solito, i mezzi dell’esercito italiano non potevano competere con l’ambizione del Duce. Per lo sbarco in Corsica vennero quindi usati, tra gli altri, dei “motosbarchieri”, capaci di portare 15 uomini ciascuno. Praticamente dei pescherecci.
“Cose da pazzi”, scrisse a questo proposito il ministro degli esteri Galeazzo Ciano nel suo diario. Figura questa che ben simboleggia il cono grigio di continui compromessi in cui molti si mossero in quei giorni. Membro del governo fascista, ne fu però anche critico. E infatti questa ed altre osservazioni gli sarebbero risultate fatali. Dopo l’armistizio con gli Alleati, Ciano venne arrestato a Verona dalle SS e rinchiuso nel carcere degli Scalzi, con l’accusa di alto tradimento per essersi espresso a favore della fine del regime fascista. Condannato a morte, venne fucilato all’alba dell’11 gennaio 1944.
La sua morte divenne l’epicentro di uno straziante feudo in casa Mussolini. Sua moglie Edda era infatti una dei cinque figli del Duce. La sua intercessione presso il padre non servì però a mutare il corso delle cose. Né tantomeno il suo tentativo di barattare la vita del marito coi suoi diari. Al giudice Vecchini che domandava se fosse necessario condannare a morte Ciano, nonostante fosse suo genero, Mussolini rispose impassibile: “Fa il tuo dovere”. Decisione peraltro approvata anche da Rachele, moglie di Mussolini e madre di Edda. Molti anni dopo, a guerra finita, Edda dichiarerà di aver perdonato suo padre per non aver potuto o voluto salvare la vita di Galeazzo. Della madre semplicemente dirà: “Lei ha difeso il suo uomo, io ho difeso il mio”.
Mio nonno, fresco di nomina a sottonente dei bersaglieri, fu quindi tra quei 69.000 soldati che approdarono in Corsica col sostegno dei “motosbarchieri” recuperati all’ultimo momento. La sua guerra iniziava nel periodo più buio per l’Italia ed il suo esercito. E sarebbe stata più lunga e sanguinosa di quel che l’ingenuità dei suoi 21 anni avrebbe potuto immaginare.
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